Continua il lavoro transdisciplinare con il gruppo Frame di Torino sulla comunicazione della scienza, di cui ho scritto in un post precedente. Conclusosi il terzo e ultimo incontro di quelli previsti – ma già si parla di proseguire questa bella collaborazione – è ora di tirare le somme, sia pure parziali, mediante la redazione di una serie di testi, di considerazioni, di idee, di impressioni, da riunire in una pubblicazione a venire, che probabilmente sarà accompagnata da materiali multimediali (un video? Un fumetto? Lasciamo un po’ di mistero). È stato dunque proposto un documento con alcune domande, diverse a seconda dei campi di studio e di ricerca di ciascuno di noi. Quello che segue è una sorta di work in progress del mio testo conclusivo, si tratta quindi di un contenuto parziale e limitato. Rendendolo pubblico spero di poterlo discutere e completare grazie al feedback di chi vorrà leggerlo. I grafici che accompagnano questo testo, che provano a mappare e collegare tra loro i contenuti emersi durante gli incontri, sono realizzati da Jacopo Sacquegno, e li ho volutamente “tagliati” per non togliere la sorpresa alla loro pubblicazione finale.

Ci sono delle dinamiche/pratiche virtuose nel mondo dell’arte che potremmo “copiare e incollare” nella comunicazione della scienza?

Nel mondo dell’arte la narrazione, la capacità narrativa, persino fabulatoria, la sua costruzione, spesso la sua enfasi, sono fondamentali. Questo è vero nell’ambito della critica d’arte, che tra le sue funzioni ha anche quella di presentare (per alcuni “disvelare”), interpretare, più prosaicamente “comunicare”, l’opera al pubblico. La critica d’arte ha conosciuto diverse scuole o modalità di lettura dell’opera, talvolta compresenti nello stesso testo: storica, fenomenologica, semiotica (soprattutto negli anni ‘70 e ‘80), sociologica, psicologica (anni ‘70-’90)… Il periodo d’oro della critica d’arte va dagli anni ‘60 agli anni ‘90, e coincide, in maniera interessante, con il predominio dell’idea di sperimentazione nella creazione artistica, dalle arti cosiddette figurative alla performance e all’happening, dalla musica, nelle sue varie declinazioni dal popolare al colto, al cinema, alla poesia, alla letteratura… È anche un periodo d’oro per le “avanguardie” artistiche, le ultime delle quali, le più significative, sono state negli anni ‘80 del Novecento la “Transavanguardia”, il cui mentore è stato Achille Bonito Oliva, e i “Nuovi Nuovi”, il cui mentore è stato Renato Barilli.

Si trattava, tuttavia, di un’arte esclusiva, per un pubblico di esperti, di un’arte in cui l’artista era una sorta di sciamano che con la sua vita, il suo corpo e la sua ricerca faceva da tramite con l’assoluto, comunque lo si volesse intendere, espungendo l’opera direttamente dal suo corpo con strumenti tutto sommato semplici. Era un’idea romantica dell’arte, tuttavia ancora radicata, sia pure in maniera meno evidente. La critica d’arte sosteneva questa esclusività e la affiancava: rileggendoli oggi, quei testi di critica degli anni ‘70 e ‘80 possono risultare poco comprensibili, oscuri, involuti, creati da pochi per pochi. All’epoca invece, quanto più erano ardui e faticosi tanto più venivano considerati interessanti e pregiati!

Le ultime avanguardie ufficialmente riconosciute e il loro apparato critico segnano la fine dell’epoca dell’arte come esclusione. I grandi eventi contemporanei devono macinare pubblico: La Biennale d’Arte di Venezia è passata dagli oltre 500 mila visitatori nel 2015 ai quasi 650 mila nel 2017 (per dare un altro riferimento, nel 2012 Documenta 13 a Kassel ne ha fatto 900 mila). Non è più solo un pubblico di addetti ai lavori ma anche, in gran parte, costituito di appassionati, di visitatori, di turisti: è un pubblico generalista di provenienza internazionale. Ne consegue che da manifestazioni come queste non bisogna aspettarsi, come qualche decennio fa, la presentazione delle “ultime tendenze”, delle forme espressive più “nuove”, dell’“avanguardia” se proprio vogliamo usare ancora questo concetto démodé – a meno di non includere nel discorso artistico anche i grandi processi organizzativo/comunicativi che questi eventi implicano, il che non sarebbe affatto un’idea peregrina – perché questo pubblico generalista non capirebbe. I grandi eventi devono proporre dei temi alti ma culturalmente, e più o meno criticamente, condivisi, di natura storica o generali, radicati nell’immaginario contemporaneo, alti ma al contempo popolari, che non devono turbare troppo o che devono riportare gli eventuali turbamenti sotto l’egida rassicurante della discussione colta, adatti a essere mediati. Per citarne alcuni delle ultime Biennali d’Arte: l’umanesimo, l’arte come momento di illuminazione, l’arte come “macchina del tempo”, le “generazioni dell’arte”, il sapere enciclopedico… In questo processo di mediazione la figura del critico tende a trasformarsi in quella del curatore, quando non addirittura a essere sostituita del tutto. Rispetto al critico il curatore è più un esperto degli aspetti culturali, anche pubblici e comunicativi, dell’evento, deve facilitare e posizionare la “divulgazione artistica”. Anche l’impianto testuale che accompagna questi eventi è diverso: gli articoli e i saggi si fanno più comprensibili, aprendosi a un pubblico più ampio.

L’arte delle innumerevoli mostre, delle rassegne e delle fiere ha perso il ruolo di generatore o attrattore di forme culturali ed espressive sperimentali, la funzione di faro del nuovo, la dimensione assoluta, forse persino la sua illimitata e incontestata libertà. Pierre Restany, fondatore nel 1960 del Nouveau Réalisme, con cui ho avuto la fortuna e l’onore di collaborare per molti anni, diceva spesso che “l’artista è uno spirito libero”. Oggi si ha l’impressione che il volto dell’arte sia quello della conservazione, incapace di guardare al futuro, con lo sguardo rivolto a un’arcadia splendente, libera e inquieta al fuori del tempo. Con poche eccezioni, nel rigetto pregiudiziale o nella comprensione superficiale della complessità dei fenomeni emergenti – l’impatto delle tecnologie e delle discipline scientifiche, la criticità dei movimenti politici e sociali, la dimensione globale e locale dei mutamenti climatici, le molte facce dell’antropocentrismo e le sue ricadute sugli ecosistemi, per fare solo qualche esempio – nella riduzione a elemento decorativo della contemporaneità, nella celebrazione di un umanesimo semplice e ottuso, impegnata in battaglie di retroguardia, l’arte sembra appartenere a un tempo oleografico. Dunque, rinuncia a quella che potrebbe essere la sua vocazione fondamentale, oggi forse persino la sua maggiore responsabilità: interpretare lo spirito critico della contemporaneità.

Per tornare alla divulgazione scientifica, la domanda era: esistono delle dinamiche o delle pratiche del mondo dell’arte che possono risultare interessanti per la comunicazione della scienza? Certamente sì, ma non nel mondo dell’arte delle avanguardie, così esclusivo e volutamente estraneo alle masse, con i suoi dispositivi e i suoi riti di attuazione e comunicazione. La comunicazione scientifica deve divulgare, o, se si preferisce, mediare, il lavoro della scienza e degli scienziati, spesso riorientando una relazione precaria e pregiudiziale: per farlo non può partire da posizioni di esclusione o che guardano dall’alto.

Possono essere invece interessanti per la comunicazione della scienza le odierne dinamiche della comunicazione dell’arte. Visioni consistenti ma non troppo ambiziose, né troppo distanti nella cultura né a lungo termine, narrazioni tuttavia in grado di appassionare. Forme artistiche che sollevano stupore e nel contempo non pretendono impegni esclusivi di carattere culturale. Che con passione sono capaci di creare narrazioni condivisibili su argomenti anche importanti della contemporaneità e di coinvolgere persone di varia provenienza.

 

In che modo le riflessioni tra arte/scienza/tecnologia possono entrare nell’attività di un divulgatore?

In primo luogo, direi, per una questione legata alle dinamiche stesse della contemporaneità: oggi è difficile capire e descrivere la complessità del mondo senza attivare atteggiamenti e approcci artistici. L’arte può favorire la capacità di immaginare, può mostrare nuovi punti di vista, può produrre nuovi modi di comprendere il reale, nuove visioni del mondo. L’arte ha una fondamentale vocazione critica, che conduce a una preziosa indipendenza. La scienza può guardare all’arte per il rifiuto degli schemi, il pensiero altro, il percorso divergente, la riflessione alternativa, la soluzione inusuale, l’atteggiamento sincretico, la libertà e l’indipendenza, l’attenzione al nuovo. L’arte può arricchire la comunicazione della scienza coinvolgendo persone che, per vari motivi – culturali, ideologici, politici… – rimarrebbero, più o meno volontariamente, escluse. Può generare una sensibilità verso l’impatto culturale delle narrazioni scientifiche, mostrando la qualità poetica di visioni del mondo che possono avere affinità con le proprie. Può orientare l’attenzione sugli aspetti sociali ed etici, spesso trascurati o considerati superficialmente.

Le narrazioni della scienza possono integrare la conoscenza, aiutare a comprendere le direzioni della ricerca, rendere consapevoli di ciò che è possibile, approfondire le visioni del mondo o crearne di nuove, definire la realtà e i suoi limiti, guardare al futuro.

A mio avviso si tratta di aspetti fondamentali per la divulgazione scientifica.

Il gruppo di lavoro al secondo incontro

 

Come si può conciliare la contrapposizione tra materialità e rappresentazione del reale nella divulgazione scientifica (questo punto nasce dalla discussione sull’impiego, per esempio, degli smartphone nei musei)?

In realtà questa contrapposizione tra la materialità del reale e la sua rappresentazione immateriale (o limitatamente materiale, o diversamente materiale) è a mio avviso malposta, in primo luogo perché nel computo della “materialità della comunicazione” sarebbe necessario includere i dispositivi e i supporti che rendono possibile e veicolano la comunicazione, dato che da essa sono tecnicamente inscindibili e solo logicamente distinguibili (una riflessione sulla relazione tra immagine e supporto, e sulla natura delle immagini, richiederebbe una trattazione a parte). Tuttavia, anche volendo trascurare questo importante argomento concentrandosi esclusivamente sulla dimensione informazionale, la tendenza all’“immaterialità della rappresentazione” è connaturata all’evoluzione della comunicazione simbolica umana: da sempre la riduzione della materia dell’informazione costituisce un elemento fondamentale della comunicazione. Nei segni indicali un gesto, che coinvolge solo una piccola parte del corpo, attraverso uno spazio intermedio che può anche essere vuoto, sta in luogo di un oggetto o di un evento reale, in genere compresente nello spazio e nel tempo. Nel linguaggio orale, delle concatenazioni e delle modulazioni sonore, generate e veicolate dalla vibrazione della materia, rappresentano delle situazioni reali, anche molto complesse, non necessariamente spazio-temporalmente compresenti all’atto comunicativo. Senza sistemi di registrazione la comunicazione orale è “volatile”, nel senso che si perde una volta terminata la sua emissione, e, come per i segni indicali, richiede la compresenza spazio-temporale dei soggetti della comunicazione. Nonostante che da tempo, soprattutto dall’invenzione del telefono, i media più recenti abbiano eliminato la necessità della compresenza spazio-temporale dei soggetti della comunicazione, e che sistemi e dispositivi di memorizzazione ne possano eliminare la volatilità, la quantità di materia coinvolta nel processo di comunicazione orale è in genere ridotta rispetto a quella dell’evento e/o dell’oggetto reale che viene rappresentato. Del resto, per ovvie ragioni, ogni atto comunicativo implica un’ergonomia: ottenere la massima efficacia con la minima esposizione, con il minimo impiego di materia ed energia.

Con le immagini e la scrittura, tramite quantità limitate di materia, delle figurazioni possono rappresentare mondi reali o immaginari, la materialità della comunicazione coincide con quella dei supporti mediante i quali è veicolata e con quella degli elementi di cui è costituita. Con le immagini la conoscenza è registrata al di fuori del corpo, le informazioni e le conoscenze sopravvivono agli individui. Le immagini danno alle idee, alle pratiche e ai comportamenti una forma visuale stabile nello spazio e nel tempo, l’atto comunicativo non richiede più la compresenza spazio-temporale degli attori della comunicazione, la comunicazione non è più “volatile”, le conoscenze possono essere fissate e trasmesse.

Anche con la scrittura le informazioni registrate e codificate in una forma durevole e stabile divengono memorie e documenti conservati al di fuori del corpo, e non vanno perdute con la morte degli individui. Come per le immagini, dei segni ottenuti coinvolgendo una piccola parte del corpo sottendono narrazioni che possono essere tramandate, oltrepassando la dimensione spazio-temporale degli attori della comunicazione. Le conoscenze divengono facilmente trasportabili e verificabili, l’informazione può viaggiare nel tempo, anche per millenni, e nello spazio, anche tra i continenti, può essere condivisa da culture diverse e lontane da quella originaria. Le azioni possono essere trasmesse, fruite e attuate a distanza anche senza la presenza dell’autore del documento.

Segni indicali (anche nella forma di mouse e puntatori), oralità, immagini e scrittura sono tuttora le modalità alla base della comunicazione simbolica umana, declinate in un gran numero di tecniche, tecnologie, dispositivi e media. Nell’evoluzione delle immagini e della scrittura la materialità dei supporti delle rappresentazioni può essere molto varia, può andare dalle megastrutture utilizzate dal videomapping ai pochi decigrammi di peso degli smartwatch. Ma si riduce notevolmente la materialità della figurazione. Se nella pittura sulla tela c’è ancora uno strato visibile di materia congegnato per simulare la materialità del mondo, in alcuni pittori in maniera più evidente che in altri, nella fotografia analogica la materia dell’immagine è costituita da un sottile film fotosensibile, e il supporto è generalmente di carta. Nel cinema, nei media contemporanei e in quelli digitali ci sono in realtà due supporti, connessi tra loro, invece di uno solo: un supporto che contiene la codifica dell’informazione (hard disk, DVD, pellicola cinematografica, memorie a stato solido, ecc.) e un supporto distinto e separato, che in realtà potrebbe essere anche situato in remoto rispetto al primo (per esempio un altro continente), che la presenta (un qualche schermo attivo o passivo). Nel supporto che contiene le informazioni la materia non è direttamente percepibile dai sensi, mentre su quello che le presenta le immagini sono generate da dispositivi microscopici (transistor, led, ecc.) o sono addirittura prive di materia, generate dalla luce, come al cinema. In questi casi la “rappresentazione”, l’“informazione”, è costituita di onde elettromagnetiche, è immateriale.

Per quanto riguarda l’uso di dispositivi tecnologici nei musei, disponiamo di almeno un precedente interessante. Nella seconda metà degli anni ‘90, con l’avvento dell’informatica di massa e con la diffusione dei personal computer, di supporti multimediali come i CD-ROM, di Internet, di dispositivi di memorizzazione e qualche anno dopo dei DVD-ROM, diviene possibile comunicare dei contenuti culturali, in particolare quelli dei musei, in maniera molto più ampia e precisa che in precedenza. In questo periodo ricordo convegni, saggi, articoli, interviste, discussioni, in cui ci si chiedeva se e come questi “nuovi media” avrebbero potuto essere utilizzati per far conoscere i tesori conservati nei musei. Almeno inizialmente il loro impiego venne avversato da critici e conservatori, che consideravano il museo come luogo deputato principe nella fruizione delle opere, e temevano che una loro larga rappresentazione e divulgazione tramite CD-ROM oppure online potesse costituire una minaccia per l’affluenza del pubblico. Sinteticamente: se si può fruire di quell’opera online o sullo schermo di un computer perché dovrei andare a vederla in un museo?

La storia ha mostrato la fallacia di questa posizione: la divulgazione dei contenuti storico-artistici tramite media e new media ha generato quelle lunghe file di persone davanti agli ingressi dei musei e degli eventi culturali. L’immagine di un’opera non ne costituisce un sostituto sufficiente, al contrario: rappresenta una sorta di invito che rafforza l’intenzione di fruirla direttamente, di vederla dal vivo, magari all’interno di un percorso più ampio. Dunque, grazie a media e new media le visite ai musei e agli eventi culturali sono divenuti fenomeni di massa, inclusi negli itinerari culturali e turistici, e il pubblico pagante si è moltiplicato.

Quello che trovo spesso frustrante nell’uso dei dispositivi tecnologici impiegati nei musei è l’interazione, sia nell’uso pratico di questi dispositivi, secondo me non sempre adeguati, sia nelle interfacce grafiche che li governano, talvolta di difficile comprensione e uso. Così come non ci si improvvisa giornalisti scientifici, non ci si improvvisa neppure esperti di interaction design. Spesso mi sembra che quelle straordinarie acquisizioni teorico-pratiche, che a partire dagli anni ‘80 del ‘900 hanno contribuito a espungere le interfacce grafiche dall’oscurità testuale dei laboratori informatici, siano state dimenticate. Che anche questo sia colpa della globalizzazione? Per quanto mi riguarda in molti casi costringerei gli ingegneri e i designer che hanno progettato e realizzato quei dispositivi, le loro modalità d’uso, le interfacce che li governano e che separano gli utenti dalle informazioni, a frequentare almeno dei corsi di usabilità.

Immagine algoritmica dalla finestra del mio albergo