Sono stato invitato a Pordenone, in occasione della Design Week, per partecipare a due incontri sul tema “Media, Design e Società”: la mattina al convegno “Immaginare il Futuro”, presso il Consorzio Universitario di Pordenone, davanti a studenti e docenti di informatica, di comunicazione e design, e il pomeriggio al panel “L’impresa del Futuro”, ospitato da Unindustria, l’associazione industriali di Pordenone.

Il percorso verso l’Internet of Things

Entrambi gli incontri erano organizzati dall’ISIA di Roma, partner del Consorzio Universitario, nella persona di Giuseppe Marinelli De Marco, e hanno visto la partecipazione di Derrick de Kerckhove, Francesco Monico (T-Node, University of Plymouth), Andrea Zanni (Direttore del Consorzio Universitario), Gianluca Foresti (Direttore del Dipartimento di Scienze Matematiche Informatiche e Fisiche, Università di Udine), Francesco Venier (Associate Dean MiB School of Management) e Franco Scolari (Direttore del Polo Tecnologico di Pordenone).

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Al convegno della mattina ho imperniato il mio intervento, intitolato “Dal mediascape all’infoscape”, sull’Internet of Things (IoT, l’Internet delle cose o degli oggetti, Kevin Ashton, 1999), cioè su quell’insieme di tecnologie che permettono di collegare a Internet oggetti e dispositivi per monitorare, trasferire informazioni e svolgere azioni conseguenti. Gli oggetti e i dispositivi acquistano un’“identità elettronica”, si rendono riconoscibili, scambiano dati con altri oggetti e assumono un ruolo attivo grazie al collegamento alla Rete. Nell’IoT il mondo dei dati traccia delle mappe di quello fisico dando delle identità alle cose e ai luoghi. È dunque necessario espandere l’idea tradizionale di design verso un design più incentrato sugli aspetti relazionali. La grande mostra del 2011 al MoMA, “Talk to Me. Design and the Communication between People and Objects”, curata da Paola Antonelli, che ho avuto il piacere di vedere, per molti versi anticipava questa direzione.

Il catalogo della mostra "Talk to Me. Design and the Communication between People and Objects"

Il catalogo della mostra “Talk to Me. Design and the Communication between People and Objects”

Il design è, per definizione, intrinsecamente relazionale, dato che mette in relazione oggetti e dispostivi tra loro, con gli ambienti in cui sono collocati e con le persone che devono fruirli, conferendo loro dei significati e dei compiti di relazione – stilistici, operativi, simbolici, estetici, funzionali, comunicativi, economici, ergonomici… Tuttavia, alla luce delle tecnologie di comunicazione e dell’IoT, è necessario espandere la dimensione relazionale e processuale del design agli aspetti di transito e scambio dati, di feedback, di organizzazione e propedeuticità delle informazioni.

Le relazioni degli oggetti

Le relazioni degli oggetti

Diviene dunque fondamentale pensare a un design non solo focalizzato, come quello consueto, sull’oggetto e sul dispositivo, sulle loro relazioni con il fruitore, con gli altri oggetti e con l’ambiente nel quale sono collocati, ma anche e soprattutto a un design processuale, imperniato sullo scambio di dati tra gli oggetti e i dispositivi, a una sorta di metadesign. Non dunque un design degli oggetti ma dei processi, dei flussi di informazioni, transmediale, un design adeguato al panorama contemporaneo pervaso dai dati, dai Big Data, dalle innumerevoli forme emergenti di Intelligenza Artificiale…: un Infoscape Design.

Tipologie di design

Tipologie di design

L’Infoscape Design fa agire insieme, funzionalmente, oggetti, dispositivi, sistemi di controllo e di feedback. Non considera gli oggetti e i dispositivi in maniera individuale e separata, ma come funzionalmente interfacciabili gli uni con gli altri, ne integra le funzioni, si focalizza sulle loro relazioni, sugli scambi di informazioni. Dunque, si passa dalla creazione e gestione di oggetti sensoriali alla creazione e gestione di flussi di dati, alla finalizzazione di processi di informazione non fruibili dai sensi se non in maniera mediata. Più che a un’attività da solista, come spesso il design viene inteso, l’Infoscape Design assomiglia alla direzione di un’orchestra.

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L’Infoscape Design

L’Internet of Things solleva numerosi problemi di varia natura. Gli standard coinvolti sono diversi e spesso inconciliabili, minando l’interoperabilità. Il funzionamento dei sistemi che gestiscono i flussi di dati deve essere automatico, ma anche semplice e gestibile da chi non è un informatico. L’utente deve essere al centro dei processi, deve lavorare meno possibile ma deve poter decidere quali dati filtrare, quali oggetti, dispositivi e informazioni escludere o includere, in maniera semplice e trasparente. Nelle criticità il sistema deve arrestarsi e spiegare all’utente come risolvere. Altri punti critici fondamentali riguardano la sicurezza del software e la sua inviolabilità, la corretta gestione – dal punto di vista tecnico e della privacy – della grande quantità di dati che viene generata (Big Data) e delle infrastrutture necessarie a produrli e gestirli. E, con l’aumento della complessità, diventano rilevanti gli aspetti di imprevedibilità o addirittura di autonomia dei sistemi e degli algoritmi, che possono sfuggire persino al controllo (e alla comprensione) dei loro creatori.

Esempio di flusso IoT

Esempio di flusso IoT

Infine c’è il grave problema del rispetto della privacy, che senza adeguate modalità di protezione può essere facilmente violata e rivelare una grande quantità di dati sensibili per la profilazione, il tracciamento e la sicurezza degli utenti: a livello di abitudini personali (testi prodotti, attività sui social network, fruizione di programmi mediali, acquisti, frequentazioni, abitudini di vita, medicinali assunti…) e operative (password, dati bancari, carte di credito…). Chi opera sui flussi di dati? Con quale autorizzazione? In quale modo? Si tratta di elementi nodali della contemporaneità, basti pensare all’attuale controversia che vede contrapporsi da una parte FBI e dall’altra Apple e le principali aziende produttrici di software.

Nel pomeriggio, nel panel intitolato “L’impresa del Futuro” ospitato da Unindustria, l’associazione industriali locale, si è discusso di vari argomenti più vicini alla sensibilità delle aziende: l’avanzamento delle tecnologie informatiche e della Robotica, l’accelerazione dei processi di comunicazione, le trasformazioni dell’economia, i possibili scenari del futuro. Si tratta di temi sostanzialmente collegati all’innovazione, al “nuovo”, elementi di importanza centrale nella vita delle aziende e delle società che tuttavia sono spesso declinati in maniera frammentaria, incompleta, limitata. Si ha l’impressione che la parola “innovazione” venga utilizzata in maniera enfatica, come marketing, e che, più che il “nuovo”, configuri invece un riadattamento del vecchio, magari ottimizzato, migliorato, ripulito, ma senza nessun reale cambio di paradigma. E si ha la sensazione che molti discutano di innovazione, ognuno sostenendo la propria versione, senza realmente comprendere che cosa sia, come e dove nasca, a cosa possa condurre, e come in genere essa nasca al di fuori dei settori nei quali la si vuole riconoscere e rinchiudere.

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Il “nuovo”, il futuro, o, detto altrimenti, l’“avvenire”, dovrebbe essere una preoccupazione centrale delle società umane, dunque anche delle aziende: come nasce, come lo si riconosce, come lo si sostiene, come lo si comunica? Invece sembra che la società contemporanea, in particolare quella occidentale, abbia uno sguardo appannato verso il futuro, che ne sia spaventata, basti pensare agli atteggiamenti dell’Europa e delle nazioni che la compongono nei confronti di fenomeni sociali, culturali, tecnologici, scientifici che pervadono, e talora assediano, la contemporaneità.

Noi umani abbiamo la capacità innata di progettare, di declinare la nostra esistenza nel futuro, dunque perché la mortifichiamo? Nel sito fivewordsforthefuture, che abbiamo dedicato all’innovazione, ho scritto che «[…] una parte rilevante dei nostri pensieri, delle nostre azioni, delle nostre attività, delle nostre idee, dei nostri progetti, delle nostre vite, è declinata al futuro. […] Usiamo delle agende per sintonizzare i nostri impegni con il futuro. Costruiamo monumenti – compresa quella particolare forma di monumento moderno che è la fotografia – per declinare la memoria al futuro. Ci fidiamo delle previsioni del tempo. Ci sono persone che sono disposte a pagare maghi e astrologi per divinare il futuro. Il denaro è una sorta di promessa infinita di futuro, e mettiamo i soldi in banca perché possano tornarci utili in futuro, e a loro volta le banche li investono nel futuro (anche se spesso in modo sbagliato). Stipuliamo assicurazioni per prevenire il futuro, e alcune sono obbligatorie. Molte persone fanno scommesse, investono denaro in borsa, giocano d’azzardo. Acquistiamo beni a credito o a rate. L’attività delle imprese è pianificata nel futuro e si basa su previsioni sociali, economiche e culturali. Ci sono aziende il cui unico compito è predire futuro, per poi venderlo ad altre aziende, che a loro volta inseriscono questo futuro nei loro piani industriali.

La stessa etimologia della parola “progetto” deriva dal latino e significa “gettare al di là”. Ma al di là di che cosa? Certo al di là delle difficoltà e degli ostacoli che ogni progetto deve attraversare prima di diventare reale, ma soprattutto al di là del tempo. E qual è il vero significato della parola “speranza”, un costrutto tipicamente umano, se non l’augurarsi un futuro nel quale fatti e opportunità si accordano coi nostri desideri e con le nostre aspettative?

Dunque, pensarsi, immaginarsi al futuro, è una condizione innata della natura umana, è così banale che non ci pensiamo. Ma spesso sembriamo incapaci di avere visioni, sembriamo rivolti al passato, ripiegati su noi stessi, con idee deboli o con nessuna idea per il futuro. Il futuro ci spaventa. Non siamo i soggetti ma gli oggetti delle trasformazioni in atto e delle innovazioni, le subiamo. Scienze e tecnologie sembrano allontanarsi lasciandoci indietro. Siamo incapaci di declinarci al futuro, soprattutto in questo periodo di crisi in cui, al contrario, sarebbe essenziale essere in grado di guardare avanti, di innovare, di avere visioni.»

Una immane e molteplice aspettativa di futuro e un enorme bisogno visionario pervadono la contemporaneità, ovunque e in tutti i campi. La cultura umana sarà capace di interpretarli?