
[ITA] Qualche settimana fa ho seguito a Bologna la conferenza “L’Africa sui media occidentali: luoghi comuni, approssimazioni, dimenticanze”, organizzata dal locale Ordine dei Giornalisti. Ho scelto di seguire questo incontro, nonostante sia lontano dalle cose di cui mi occupo, non tanto e non solo perché mi interessava per la sua attualità sociale, politica e mediatica, per il crudele stillicidio giornaliero di sciocchezze che emergono attraverso la distanza della cultura o la lente della sua dimensione codificata e sedimentata, la storia. Di seguito qualche riflessione.
[ENG] A few weeks ago in Bologna I attended to the conference “Africa in Western media: clichés, approximations, forgetfulness”. Despite the fact that its topics are distant from my interests I decided to go to this meeting not because I am interested in its current social, political and media issues, or because of the cruel dripping nonsense that daily emerges through the distance of culture or through the lens of history, that is culture’s coded and unsettled dimension. Below some reflections.

A destra mio padre, seduto, e mia zia, in piedi (foto dall’archivio dell’autore) / Right, my father, sitting, and my aunt, standing (photo from the author’s archive)
Italiano [English below]
Quell’incontro, a cui partecipavano Antonella Sinopoli (giornalista, direttore responsabile di Voci Globali), Raffaele Masto (giornalista di Radio Popolare) e Marco Trovato (direttore editoriale di Africa), mi interessava, per così dire, affettivamente. Faccio fatica a prendere e a mantenere una distanza storica e culturale non solo per ragioni, come s’usa dire, “umanitarie”, ma per ragioni più dirette, personali, genealogiche, genetiche: la nonna paterna era etiope, il nonno ha vissuto buona parte della sua vita in Africa; in Africa entrambi sono sepolti, in un piccolo cimitero davanti al mare di Gibuti; mio padre è venuto in Italia quand’era ragazzino, i suoi racconti “sull’Africa” hanno costituito le favole della mia infanzia… E nonostante che per tutta la vita egli abbia sognato di tornare in quei luoghi, non ne ha mai avuto l’opportunità. Qualche volta ho cercato di fare luce nell‘oscurità di quelle origini (i nonni sono morti molto tempo prima che nascessi) tramite le parole di mio padre e dei suoi parenti più stretti (tutte persone venute a mancare da tempo) e tramite la storiografia (a casa dei miei è mantenuto un archivio periodicamente visitato da ricercatori). Una soluzione, quest‘ultima, fatta di date, luoghi, nomi, storie da setacciare alla ricerca delle radici, e dunque in qualche modo anche delle ragioni, della mia esistenza. Ma non è agevole tentare di estrapolare qualcosa da frammenti di ricordi ormai privi di un narratore o da documenti di varia natura – il testo di un carteggio, un volto in una foto virata, un antico oggetto esotico, un evento illustrato in un vecchio giornale… Oppure cercando negli annali d’epoca: leggervi i nomi dei propri famigliari è un po’ come ritrovarli in un bollettino dei caduti o in un elenco di coscritti.
L’incontro sull’Africa ha evidenziato numerosi elementi spesso trascurati dai media. Tra questi il più evidente è il riconoscere all’Africa quello statuto plurale che costituisce invece il suo tratto più significativo. Per fare un esempio, a meno di voler stilare trattati di natura enciclopedica con molte voci, riconosciamo facilmente che temi come l’“alimentazione in Europa” o la “cultura in Europa” sono troppo generici e dovrebbero essere declinati localmente, dato che l’Europa è costituita da diverse nazioni con una grande varietà di cibi e di culture. Invece accade spesso di vedere articoli su “la donna in Africa”, “l’alimentazione in Africa”, “la religione in Africa”, ecc., che ignorano che l’Africa è il secondo continente sulla Terra per vastità e per popolazione, mediamente la più giovane del mondo, che ha 54 Stati (più i territori non ancora riconosciuti), che ha una grande varietà di zone geografiche e climatiche, che ha culture, etnie, linguaggi e religioni molto diversi tra loro… Spesso i media tendono ad appiattire quel che pensano essere poco conosciuto o poco accattivante, semplificandolo e strizzando l’occhio agli stereotipi, ai luoghi comuni, ai pregiudizi, cercando di riportare la comunicazione sui binari del “già noto”. I giornalisti, oltre magari a conoscere poco l’argomento, devono renderlo riconoscibile e comprensibile a un pubblico che spesso ragiona per stereotipi, luoghi comuni, pregiudizi, talvolta facendone persino una bandiera politica.
Anche se l’abbiamo vergognosamente rimosso, in Africa ha avuto origine l’umanità: secondo gli antropologi il più antico territorio sulla Terra abitato dai nostri antenati – a partire da circa sette milioni di anni fa – non è molto distante dalla zona in cui i miei nonni si sono incontrati. Per migliaia di anni l’Africa è stata al centro della storia della scienza e della matematica, matematici africani hanno contribuito in maniera sostanziale alla conoscenza scientifica. I Greci hanno preso in prestito molte idee dagli egiziani, ne hanno adottato il calendario e hanno tributato a studiosi africani il loro apprendimento della matematica, della geometria e della medicina (anche quella ippocratica deve un grosso tributo alla medicina egiziana, considerata all’epoca la più avanzata). Platone e Pitagora hanno dichiarato di aver studiato e appreso, come molti altri filosofi greci, in Egitto. Per Talete di Mileto i sacerdoti egiziani erano una importante fonte di conoscenza e informazione. Euclide ha insegnato in Egitto, ad Alessandria. In realtà, la maggior parte dei grandi matematici e filosofi greci ha scritto in greco ma è vissuta in Egitto, e alcuni studiosi contemporanei considerano l’Egitto, e più in generale l’Africa, come culle della cultura greca (e di conseguenza di quella europea). Si veda anche qui.
È africana anche quella che può essere considerata la più antica dichiarazione dei diritti dell’uomo, la Carta Manden, proclamata solennemente nel giorno dell‘incoronazione di Suondiata Keïta a imperatore del Mali nel 1222. La Carta Manden, tramandata oralmente, si rivolge ai “quattro angoli del mondo” ed è una dichiarazione dei diritti umani essenziali, come il diritto alla vita, la libertà personale, la lotta contro la schiavitù, contro la guerra e la fame.
Lo sappiamo, è il potere – economico, politico, finanziario… – a scrivere la storia, a scegliere e certificare ciò che una qualche memoria ufficiale deve contenere e ciò che deve escludere. Ma spesso è l’Africa stessa che stenta a raccontarsi, che non ha o rifiuta gli strumenti per rappresentarsi, che si dimentica di sé, che alla fine si accontenta di narrazioni che la relegano a un ruolo minore, che talvolta sembra addirittura rifiutare le proprie radici, che si piega a modelli culturali che non le appartengono.
Nel dicembre 2014 ho partecipato con una relazione alla Fak‘ugesi Digital Africa Conference (ne ho scritto qui), conferenza internazionale svoltasi presso la University of the Witwatersrand a Johannesburg per promuovere la cultura digitale nel continente africano. La conferenza, organizzata per “creare una piattaforma per la ricerca sulle tecnologie, l’arte e la cultura in Africa”, presentava ricerche locali e internazionali nelle quali le tecnologie attraversavano il sociale, l’economia e le pratiche creative. Mi ha stupito il fatto che in tre giorni di interventi, spesso centrati sul digitale, nessuno abbia ricordato alcune importanti scoperte avvenute proprio in Africa. Come il Lebombo Bone, un osso inciso di babbuino datato 35.000 a.C., considerato il più antico dispositivo matematico, rinvenuto sulle montagne tra Sudafrica e Svaziland, quindi non molto distante da Johannesburg dove si svolgeva la conferenza! E L’Ishango Bone, un altro osso di babbuino con incisioni datato 20.000 a.C., probabilmente utilizzato come strumento di calcolo, scoperto nella Repubblica Democratica del Congo. Si tratta di ritrovamenti che si situano tra i primissimi sistemi segnici umani per la misurazione e il calcolo, di gran lunga antecedenti alla nascita della scrittura.

Il Lebombo Bone / The Lebombo Bone

L’Ishango Bone / The Ishango Bone
Per provare a modificare tutto questo, se non altro nel rapporto con i media, sarebbe necessaria una classe di storici, filosofi, sociologi, giornalisti, educatori, scienziati, attivisti e artisti africani in grado di coordinarsi e di (ri)scrivere una storia del continente in maniera indipendente dalle narrazioni dominanti, e di declinarla al futuro. Una generazione di giovani ricercatori e studiosi africani, spesso operanti in università al di fuori del continente di origine, sta lavorando in questa direzione. Sarà comunque un processo che richiederà generazioni, in un mondo dove gli equilibri sociopolitici ed economici internazionali cambiano in fretta e nei quali il continente africano non sembra, almeno per il momento, essere in grado di giocare un ruolo determinante. Tuttavia, in mezzo a cotanta temperie, la speranza è che il continente del “mal d’Africa”, quello più “misterioso”, “avventuroso”, “pericoloso”, “selvaggio”, quello più antico, ferito, violentato e depredato, riesca a resistere alle omologazioni, a difendere le sue molte identità e a sopravvivere come rifugio del diverso, cioè del nuovo.

Johannesburg, ritratto di Mandela / portrait of Mandela
I was interested in that meeting – whose speakers were Antonella Sinopoli (journalst, director of Voci Globali), Raffaele Masto (journalist, Radio Popolare) and Marco Trovato (director of Africa magazine) – emotionally. I struggle to get and keep a historical and cultural distance not only for “humanitarian” reasons, but for direct, personal, genealogical, genetic reasons: my paternal grandmother was Ethiopian, my grandfather lived in Africa a large part of his life; in Africa both are buried, in a small cemetery in front of the sea in Djibouti; my father came to Italy when he was a young boy, his stories “about Africa” have been the tales of my childhood… And despite the fact that during all his life he dreamed of going back to these places, he never had the opportunity to.
Sometimes I have tried to make light in the darkness of those origins (my grandparents died long before I was born), through the words of my father and his closest relatives (all missed people since a long time) and through historiography (my parents’ house contains an archive that is periodically visited by researchers). This latter solution is made of dates, places, names, stories, to sift through in search of the roots, and therefore also of the reasons, of my existence. But it is not “easy” trying to extract something from fragments of memories without a narrator or from various documents – the text of a correspondence, a face in a faded photo, an ancient exotic object, an event illustrated in an old newspaper – or looking into the annals of time: reading the written names of my family sounds almost like finding them in a bulletin of the fallen or in a list of conscripts.
The meeting on Africa highlighted several elements that are often overlooked by western media. The most obvious is the recognition of the plural statute of Africa, which is one of its most significant features. As an example, unless compiling an encyclopedic treaty with many voices, we easily recognize that issues such as “food in Europe” or “European culture” are too general and should be declined locally, since Europe is composed of different nations with a huge variety of foods and cultures. Instead there are often articles on “women in Africa”, “food in Africa”, “religion in Africa”, etc., that ignore that Africa is the second largest continent on Earth for vastness and population (on average the youngest in the world). Africa has 54 nations (plus the territories not yet recognized), has a wide variety of geographical and climatic zones, has many different cultures, ethnicities, languages and religions…

From “The world does not aid Africa – Africa aids the world!”, by Khanyo Olwethu Mjam
The media often tend to flatten what they think being little known or unattractive, simplifying and using stereotypes, clichés, prejudices, trying to bring the communication on the tracks of the “already known”. The journalists, sometimes in addition to a poor knowledge of the African topics, must make them recognizable and comprehensible to an audience that often thinks through stereotypes, clichés, prejudices, even using them as political banners.
Although we have shamefully removed it, humanity originated in Africa: according to anthropologists, the oldest territory inhabited by our ancestors – about seven million years ago – was not so far from the area where the my grandparents met. For thousands of years, Africa has been at the center of the history of science and mathematics, Africans have substantially contributed to science and to the mathematical knowledge. Greeks borrowed many ideas from Egyptians, they adopted an Egyptian calendar and based their learning of mathematics, geometry and medicine on the work of African scholars. Also the Hippocratic medicine pays a big tribute to the Egyptian one, considered at the time the most advanced). Both Plato and Pythagoras stated that they and many great Greek philosophers studied and learned that knowledge in Egypt. For Thales of Milete the Egyptian priests were a veritable source of knowledge and information. Euclid taught in Egypt, in Alexandria. In fact, most of the great Greek mathematicians and philosophers wrote in Greek but lived in Egypt, and some scholars tribute to Egypt, and more in general to Africa, the birth of Greek (and consequently of European) culture.

A reconstruction of Lucy, Australopitecus Afarensis (Image: Travis S./Flickr)
It is African also what can be considered as the most ancient declaration of human rights, the Manden Charter, solemnly proclaimed on the coronation day to Emperor Suondiata Keïta in Mali in 1222. The Manden Charter, orally transmitted, is addressed at the “four corners of the world” and it is a statement about basic human rights, like the right to life, to freedom, to fight against slavery, war and hunger.
We know, power – economic, political, financial, cultural… – writes history, power selects and certifies what some official memory must contain and what has to be excluded. But sometimes Africa itself seems unable to narrate its history, it seems lacking and even refusing the tools to represent itself, it seems forgetting itself. Africa eventually appears as satisfied with narratives that relegate it to a minor role, that sometimes seem denying its roots, that bend it to foreign cultural models.
In December 2014 I participated with a lecture to Fak’ugesi Digital Africa Conference (I wrote something about here), an international conference at the University of the Witwatersrand in Johannesburg to promote the digital culture in Africa. The conference was organized to “create a platform for research on technology, art and culture in Africa”, and presented researches where local and international technologies were crossing social, economic and creative practices. I was amazed that in three conference days, with many very interesting lectures mostly centered on digital and computer technologies, no one mentioned some important discoveries made just in Africa. Like the Lebombo Bone, an engraved bone of baboon dated 35,000 B.C. that is considered as the oldest mathematical device, found in the mountains between South Africa and Svaziland, not so far from Johannesburg where the conference was taking place! And like the Ishango Bone, another bone of baboon with engravings dated 20,000 B.C., probably used as a calculation tool, found in the Democratic Republic of Congo. These are discoveries that are among the first known human tools for measuring and calculating, far before the birth of writing.

From Derek Cunningham, “Reinterpretation of the Lebombo and Ishango Tally Marks: Evidence of Advanced Astronomical studies in Paleolithic-era Bones and an Early Writing System in the Early Upper Paleolithic Time Period”, Midnight Science (2013-2014), Volume 12, Paper 4.
To change all this, at least in the relationship with the media, a class of African historians, philosophers, sociologists, journalists, educators, scientists, activists and artists would be required. They should be capable of coordinating and (re)writing a history of the continent detached from the dominant narratives, and to project it into the future. A generation of young African researchers and scholars, mainly working in universities outside Africa, is working in this direction. However, this process will require generations, in a world where the international socio-political and economic balance is continuously and rapidly changing, with Africa that, at least by now, does not seem able to play a decisive role. In the midst of such huge transformations worldwide, the hope is that the continent of the “mal d’Afrique” – the most “mysterious”, “adventurous”, “dangerous”, “savage”, the oldest one – although injured, raped and robbed will be able to resist to the homologation, to defend its many identities and to survive as a refuge for the different, that is for the new.
Tabita Rezaire, Afro Cyber Resistance, video