
Il 19 febbraio ho partecipato a Carrara, presso l’Accademia di Belle Arti, alla celebrazione del centenario del Manifesto del Futurismo, pubblicato com’è noto da Marinetti su Le Figaro nel 1909. Qui ci sono tutte le informazioni sull’evento, compreso il manifesto, che per l’occasione è stato riscritto da Franco Berardi e ribattezzato “Manifesto del Dopofuturismo”.
La celebrazione di Carrara è stata diversa dalle altre che si stanno svolgendo un po’ dappertutto, perché più che sulla dimensione storica del Futurismo e sulla sua eventuale attualità è stata incentrata sulla riflessione intorno all’idea di futuro.
Il 20 febbraio il manifesto è stato riproposto a Roma. Di seguito la traccia del mio intervento. Alcune foto dell’evento sono su Facebook.
Carrara, Dopofuturismo, 19/02/09
Futuro e futurismo
Ho incrociato il Futurismo per varie ragioni biografiche. Potrei cominciare con un ricordo personale di Lamberto Pignotti, che ha accompagnato i miei primi passi accademici, nel 1985. Pignotti iniziava sempre l’anno accademico facendo una serie di lezioni sul Futurismo, e, come in varie altre occasioni, aveva intuito alcuni elementi di attualità di questo movimento che era ancora in ombra dati i suoi precedenti storici e politici, elementi che di lì a poco sarebbero stati celebrati nella grande mostra di Palazzo Grassi a Venezia del 1986.
Che cosa gli interessava del Futurismo? In primo luogo la dimensione “a tutto campo” di questo movimento, che investiva tutte le forme espressive (arti figurative, teatro, musica, cinema, poesia, letteratura, danza, grafica, moda, comunicazione, persino cucina), una dimensione che si sarebbe ritrovata nelle avanguardie successive. Questa “immersione” nel Futurismo era tale che un anno Pignotti organizzò persino, in un ristorante di Bologna con la collaborazione di uno chef, una straordinaria cena futurista basata sulle ricette originali, con tanto di pallini di piombo nella minestra, di bulloni da toccare gustando le portate, di dolce a forma di edificio, di bevande curiose e così via. Il Futurismo investiva tutte le forme espressive e anche la vita, si faceva dimensione esistenziale, anche nell’attenzione alla comunicazione e in particolare alle comunicazioni di massa: il manifesto futurista fu pubblicato su un importante quotidiano francese, Le Figaro.
Un altro aspetto che emergeva dall’analisi di questa avanguardia era la dimensione sinestetica, polisensoriale, della poetica e dell’espressione futurista, la sua quasi naturale vocazione al coinvolgimento di tutti i sensi, del corpo nella sua totalità. Questa dimensione in particolare, unita alla visione tecnologica, mi interessava perché integrava quella corporeità e quella sensorialità a cui tendono le tecnologie body-based, le interfacce uomo-macchina, l’arte interattiva, perché implicava il recupero della centralità del corpo nella cognizione e nella coscienza, sovvertendo un processo che aveva invece sempre teso a reificare la mente e a mortificare la dimensione corporea, sensoriale.
Infine ciò che mi rende familiare il Futurismo è una questione, diremmo oggi, di geolocazione… Sono nato nella stessa (piccola) città in cui è nato Francesco Balilla Pratella, l’estensore dei due manifesti (nel 1910 e nel 1911) che avrebbero dovuto scardinare la musica, che incitavano a disertare i conservatori, le accademie, i licei e a una libertà assoluta negli studi musicali. La cosa curiosa, forse poco nota, è che Balilla Pratella, celebre studioso di musica popolare e accanito oppositore delle istituzioni musicali nei suoi manifesti, scrisse e pubblicò anche un metodo di solfeggio, una delle modalità più tradizionali di studiare musica, tuttora utilizzato nella didattica musicale.
La visione del Futurismo si poneva al culmine di un processo che vedeva nell’artificiale prodotto dall’uomo, nelle tecnologie, nelle macchine, una dimensione profondamente positiva. Secondo il duca Des Eissentes, caposcuola decadente, esteta del profumo e protagonista di À Rebours di Huysmans, romanzo pubblicato nel 1881, “l’artificio è la marca distintiva del genio dell’uomo”, e “la natura ha fatto il suo tempo; ha definitivamente stancato, per la nauseante uniformità dei suoi paesaggi e dei suoi cieli, la vigile pazienza dei raffinati” [Joris-Karl Huysmans, À Rebours, Paris, Flammarion, 1978, p. 80]. Una dichiarazione di estetica che vale un’epoca e che si situa quasi agli antipodi della sensibilità contemporanea.
L’800 è il secolo delle invenzioni, delle adozioni a larga scala dei derivati delle scoperte scientifiche e delle tecnologie, della diffusione dei processi industriali, dell’emergere della comunicazione globale: dalla fotografia alla luce elettrica, dal telefono all’automobile, dal telegrafo alla radio, dai profumi sintetici e chimici ai quotidiani, dal motore a scoppio all’aereo, dal treno al fax, dalla lampadina al cinema, dal cemento armato alla turbina, dalla dinamite alla vaccinazione, dalla celluloide alla lavatrice, dai jeans al motore elettrico, dalla coca cola al pneumatico, dal grammofono all’aspirina, dal tubo catodico al sottomarino, dalla registrazione e riproduzione della musica al calcolatore, dall’esplosione della rivoluzione industriale all’introduzione dei fusi orari… Questa progressione sarà estremizzata nel ‘900, il secolo tecnoscientifico, che, in linea con il culto futurista della velocità, reificherà l’informazione producendo una straordinaria accelerazione che la porterà a surclassare di oltre 500 mila volte la velocità delle persone, degli animali e delle cose, rendendola immateriale e separandola dai supporti materiali sui quali era sempre stata fissata e con i quali era costretta a viaggiare, consentendo così di comunicare sempre più velocemente, sempre più lontano, in maniera sempre più affidabile ed economica.
Il ‘900 ha dunque portato all’estremo la visione positiva futurista della tecnologia, in una maniera così eclatante ed eccessiva da rendere varie tecnologie spesso inutilizzabili o addirittura dannose: pensiamo, ad esempio, all’automobile, che oggi è spesso un mezzo per andare più lentamente e non più velocemente, che ha una fetta di responsabilità nell’inquinamento dell’ambiente, nella sua depauperazione e nel rapido declino di alcune delle sue risorse. Oppure all’esaltazione della cultura industriale e della sua dimensione economica, alla concezione quasi salvifica e rigeneratrice della guerra col conseguente appoggio all’interventismo nella I° Guerra Mondiale. Il Futurismo credeva in un futuro che alla fine si è concretizzato: noi viviamo in quel futuro, anticipato dall’arte, che è il nostro presente. Ma di questo presente percepiamo la cornice negativa, l’inadeguatezza, l’ingiustizia, la miopia, l’iniquità, l’insostenibilità. Quel futuro che oggi è il nostro presente, in cui tutto deve essere veloce e rapace, meccanico ed energetico, visibile e consumabile, seriale e commerciabile, unico e indifferenziato, esclusivo e di massa, presente e mediabile…, è sempre più lontano dalla nostra sensibilità e dalla nostra esperienza. Ci vuole un altro futuro che cominci dal presente.
Infine vorrei ricordare che in questo presente il panorama tecnoscientifico è molto ampio e articolato: basti pensare a discipline come la genetica, le biotecnologie, le nanotecnologie, la robotica… con tutte le problematiche che sollevano. Il 2009 non è solo l’anno del Futurismo, è anche il 150° anniversario della pubblicazione de L’origine delle specie di Charles Darwin e il bicentenario della sua nascita. E, a giudicare dalle forze che stanno disponendosi in campo, si preannuncia una battaglia piuttosto aspra, il cui esito potrebbe incidere pesantemente sul nostro futuro. Dunque, così come avviene ora qui a Carrara con le celebrazioni del Futurismo, sarebbe importante attivare una riflessione intorno a queste nuove sfide, anche da parte delle accademie e dell’arte. Coprirsi gli occhi non farà eclissare i fantasmi, servirà solo a restare più indifesi. Noi non abbiamo bisogno di meno futuro ma di più futuro, di un futuro tuttavia di cui essere consapevoli, da condividere, a cui partecipare. Raccogliere queste sfide anche nell’arte potrebbe essere cruciale.