Sono andato, qualche giorno prima della chiusura, a vedere la Biennale de Arte Contemporaneo de Sevilla (BIACS 3) (2 Ottobre 2008 – 11 Gennaio 2009), giunta alla terza edizione e intitolata YOUniverse. Il commissario, nonché direttore artistico, di questa edizione era Peter Weibel, e dunque la cosa mi incuriosiva: perché mai una biennale d’arte, che normalmente opera sulle forme artistiche della tradizione, aveva scelto, “coraggiosamente”, un commissario così “tecnologico”?

Nel testo di presentazione Weibel sottolinea il fatto che il carattere della Biennale – che si è svolta tra Siviglia (la maggior parte delle opere, al Centro Andaluz de Arte Contemporaneo e in varie parti della città) e Granada (nell’Alhambra) – non avrebbe che potuto essere che quello della “globalità”. La produzione di arte contemporanea non è più ristretta all’Europa e al Nord America, bisogna spostare il fuoco. Ed è qui che intervengono le tecnologie mediali e le discipline scientifiche da cui discendono.

 

“La tecnologia è transreligiosa, transgender, transnazionale e transrazziale”, scrive Weibel nell’introduzione. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione determinano la percezione del mondo, così come è in crescita la loro influenza sul mondo dell’arte. Le tecnologie di comunicazione determinano quella globalità, certo discutibile, asimmetrica e per molti versi apparente, che pervade il mondo. L’interattività rende il fuitore coautore dell’informazione, non più solo spettatore. Il Web 2.0 apre spazi di partecipazione diretta interessanti, mette in scena gli utenti, anche se talvolta li priva della paternità effettiva (economica, giuridica…) dei contenuti che pubblicano. La personalizzazione dell’offerta mediale, sia per quanto riguarda i contenuti che le possibilità di scelta dei media stessi, è divenuta un elemento centrale. In questa globalità, al centro, più o meno illusoriamente o efficacemente, si trova l’utente stesso (e le sue scelte, i suoi contenuti)… un utente ricercato, blandito, inseguito, circuìto… Ecco dunque una prima ragione del titolo della Biennale: YOUniverse: la possibilità, più o meno effettiva ed apparente, di un universo che ruota intorno a ognuno di noi, in cui passiamo una parte sempre più rilevante del nostro tempo, di cui siamo responsabili.

 

 

Strettamente collegata alla dimensione mediale c’è un’altra dimensione, che Weibel porta avanti, si può dire pionieristicamente, da decenni, che ha avuto tra i suoi esiti migliori la direzione di Ars Electronica dal 1986 al 1995, con le straordinarie visioni che è stato capace di proporre: quella tecnoscientifica. I media e le arti mediali scaturiscono dalle scoperte scientifiche, in ambiti che vanno dalla microelettronica alle nanotecnologie, dalla fisica dei semiconduttori alla Teoria della Relatività. Per fare solo qualche esempio: l’effetto fotoelettrico, studiato da Einstein, è alla base delle celle solari e dei sensori di luminosità dei dispositivi automatici e delle fotocamere digitali; l’emissione di radiazioni luminose da parte di un gas eccitato è alla base dei laser, che trovano impiego, per esempio, nell’olografia e in dispositivi comuni come i masterizzatori di CD/DVD-ROM, i tracciatori ottici e i mouse; la Relatività Ristretta (1905) fornisce le correzioni necessarie per la realizzazione e il funzionamento dei sistemi GPS montati nelle automobili, nei palmari e nei telefoni cellulari… Sullo sfondo di questa dimensione scientifica YOUniverse configura quindi anche una sorta di interdipendenza, di inestricabilità tra noi e l’universo mediale, partecipatorio: l’osservatore è parte inscindibile del sistema che osserva, è un osservatore partecipante. Questo è in linea con la prassi  media artistica, in cui l’interattività tra opera d’arte e fruitore riflette la relazione tra universo e osservatore. La fisica dei quanti può dunque essere considerata come un modello teorico interessante per i media interattivi.

 

 

Queste considerazioni, in linea più generale, suggeriscono quello che può essere ritenuto l’architrave di YOUniverse: la centralità della nuova natura, reale, virtuale o mista, la dimensione, diremmo “artificiale”, creata dalla cultura umana, generata dai media, dalle tecnologie, dalle scienze. Sia perché le tecnologie digitali creano habitat virtuali in cui passiamo una parte sempre più rilevante del nostro tempo, in cui di fatto “viviamo”, sia perché grazie a scienze e tecnologie creiamo strumenti in grado di intervenire in maniera sofisticata e profonda sull’ambiente fisico, che chiamiamo “naturale”, sul suo equilibrio. Ma anche perché, mediante la genetica, possiamo intervenire sul nostro corpo, sulla sua “memoria a lunghissimo termine”: i geni. O, ancora, perché siamo in grado di creare entità/organismi con comportamenti analoghi a quelli del vivente, quasi-viventi… Quanto è “naturale” questa “natura artificiale”? Ha ancora senso l’opposizione naturale-artificiale? La tecnologia non può essere considerata come la natura creata dall’uomo? Si tratta di argomenti piuttosto interessanti e di estrema attualità, che, tra l’altro, hanno fatto parte delle ricerche che anche il sottoscritto ha portato avanti a partire dai primi anni ’90.

 

 

Resta infine da dissipare una curiosità, muovendosi tra le installazioni, interagendo con le opere, immersi in un panorama dell’arte tecnologica molto ricco, articolato e puntuale che dalle origini arriva agli esiti più recenti. Quale è stata la reazione del pubblico, di un pubblico generalista come è di solito quello di una Biennale d’arte? Non sono, le opere in mostra e le tematiche, “troppo difficili”, dure, per questo tipo di pubblico? Si tratta di un’obiezione che suona spesso in occasione di queste manifestazioni. Dunque, per avere dei dati, quasi definitivi dato che mancavano due giorni alla chiusura della Biennale, abbiamo parlato con Luis Olivar O’Neill, General Manager della Biennale, che tra le altre cose ci ha detto, quasi entusiasticamente, che il numero dei visitatori di questa Biennale è stato di gran lunga più alto di quello delle edizioni precedenti. Chissà, forse molti giudizi affrettati e superficiali andrebbero corretti, perché se è vero che a un pubblico generalista potrebbero sfuggire alcune delle tematiche è anche vero che con questa tipologia di opere si può partecipare, interagire, sentirsi parte di esse, entrarvi dentro, annullando quella distanza che tradizionalmente separa le opere d’arte dai fruitori. La soglia che porta ai temi, ai concetti, si abbassa, è meno impervia che nell’arte tradizionale, quindi, magari divertendosi, si può divenire consapevoli di quegli argomenti.

 

 

Una documentazione iconografica più completa è presente su Facebook.