Aggiorno finalmente, dopo mesi, questo sito personale. Il primo post riguarda il Convegno “Open Source Meeting” (Perugia, Fondazione Accademia di Belle Arti Pietro Vannucci, 10 ottobre 2008), dedicato alla diffusione di risorse informatiche aperte nell’ambito delle arti digitali e della comunicazione multimediale, a cura di Moremo Barboni e Marco Mancuso, all’interno della sezione “Flussi” del Festival “Le Arti in Città”, promosso dal Comune di Perugia in collaborazione con la Regione Umbria. All’incontro hanno partecipato, oltre ai curatori, Evan Roth e James Powderly (fondatori di Graffiti Research Lab), Laura Colini (dip. di Architettura, Media e Sociologia Urbana, Bauhaus University, Weimar), Umane Energie e Confinidigitali.

A questo incontro ho partecipato con la relazione “Open Cultures”, di cui allego la traccia.

 

Perugia – Open Source Meeting, 10/10/2008

Open Cultures
Pier Luigi Capucci

– Mi occuperò solo del versante software, perché mi sembra che sull’hardware ci siano altri interventi.

– “Il software è una particolare forma di linguaggio attraverso cui gli umani trattano il sapere e la conoscenza accumulata nei secoli e per questo non è un semplice utensile. Il software è un artefatto cognitivo e come tale incorpora intelligenza e lavoro, veicola significati e valori, si porta dietro un’idea di chi lo produce e di chi lo usa. […] il software è il linguaggio dell’innovazione scientifica e tecnologica nella società dell’informazione.” [Arturo Di Corinto, in A. Mari, S. Romagnolo (a cura di), Revolution OS, Milano, Apogeo, 2003]

– Questa frase mi viene in mente spesso, specie quando ricevo documenti da istituzioni (Università, Accademie) o singoli (colleghi, docenti, studenti) con il prefisso .doc o .docx. Anche se talvolta è inevitabile, inviare un file in un formato proprietario significa obbligare chi lo riceve ad avere il programma che lo può aprire.

– In qualche modo, anche se si tratta di formati molto diffusi, significa escludere e talvolta spingere, per esempio degli studenti, che non dispongono di risorse economiche, a piratare quel software se non è gratuito.

– La frase iniziale mi suggerisce alcune considerazioni.

1)  Il Digital Divide

– La prima considerazione riguarda il digital divide, di cui si parla da diversi anni, come divario tra “chi ha” e “chi non ha”, tra chi ha accesso agli strumenti o li possiede e chi non ha l’accesso o non li possiede.

– Contrariamente alle visioni un po’ entusiastiche degli anni ’90, sostenute tra l’altro da vari studiosi e sociologi che vedevano nella diffusione di Internet l’opportunità di una riduzione delle differenze, il divario digitale non è diminuito ma è aumentato, all’interno di un panorama economico più generale e globale che acuisce le differenze anziché ridurle (Laura Sartori, Il divario digitale, il Mulino, 2006).

– Ma il divario digitale, oggi, non è più solo tra “chi ha” e “chi non ha”, cioè non è più basato solo sull’accesso o sul possesso degli strumenti, quindi sulla dimensione economica. In realtà nelle società cosiddette “avanzate” la linea di demarcazione si è spostata tra “chi conosce” e “chi non conosce”, tra coloro che conoscono il software e quelli che non lo conoscono, cioè riguarda la conoscenza, l’uso di determinati programmi anziché altri.

– Dunque, almeno nelle cosiddette “società occidentali avanzate”, il problema non è più quello di avere, di possedere, ma di conoscere.

– Conoscere è fondamentale per poter scegliere, per non essere costretti a usare qualcosa perché non ci sono alternative, ed è la migliore garanzia di essere liberi.

– Anche il nostro paese è in ritardo sulla conoscenza. Uno degli scopi dell’educazione scolastica dovrebbe essere quello di fornire anche queste conoscenze. Per esperienza personale so che non è così: in oltre vent’anni di attività ho insegnato e insegno in diverse istituzioni e vi posso assicurare che la percentuale di studenti che conoscono l’Open Source o, più semplicemente, programmi di ormai larga diffusione come OpenOffice o The Gimp, è davvero minima.

– Per questo a partire dal 2005 con NoemaLab abbiamo attivato un progetto, MySoft, un progetto aperto, principalmente di natura didattica che ha lo scopo di mettere insieme, online e su CD-ROM, utili programmi free, Open Source o gratuiti. MySoft nasce da un’idea dei miei corsi all’Università di Bologna e Urbino ed è realizzato da NoemaLab, e ha lo scopo di:
• dare un’alternativa valida e gratuita ai programmi solitamente utilizzati;
• educare contro la pirateria del software fornendo programmi gratuiti adeguati alle finalità di studio;
• rendere consapevoli delle problematiche del software libero e dell’Open Source.

2) L’economia dell’immateriale

– La seconda considerazione, collegata al digital divide nell’accezione che ne ho dato, riguarda quello che chiamerei la consapevolezza “dell’economia dell’immateriale”. Faccio un esempio semplice. Spesso sento, anche da parte dei miei colleghi, che quando si tratta di dare un consiglio agli studenti che chiedono lumi sui costi di acquisto di un computer, considerano solo il costo dell’hardware, come se il software – il sistema operativo, i programmi…, e si riferiscono spesso ad applicazioni Closed Source – fosse gratuito, quando invece sappiamo bene che per quanto riguarda il software proprietario il suo costo può essere di gran lunga maggiore di quello del computer stesso.

– Non mi interessa commentare qui questo comportamento educativo, e il fatto che per essere nel giusto basterebbe consigliare applicazioni Open Source e gratuite, ma la mentalità che emerge: quella secondo cui l’hardware ha un costo, un valore, mentre il software no. In altri termini ciò che è materiale (l’hardware) ha un valore economico, ciò che è immateriale (il software) non lo ha o ha un valore secondario.

– Trovo che questa mentalità, secondo la quale solo il mondo materiale, fisico, è il mondo “vero”, “reale”, “serio”, economicamente rilevante, sia poco adatta, se non inadeguata alla contemporaneità, e che non capire l’emergere dell’economia dell’immateriale (economia che per inciso, per quanto riguarda il software, è la prima del Pianeta) significa rischiare di essere tagliati fuori dalla società dell’informazione.

3) L’imperialismo del software e le infrastrutture della conoscenza

– La terza considerazione riguarda il fatto che il software è una particolare forma di linguaggio. Il linguaggio è fondamentale per noi umani perché unisce, consente di condividere, è il collante della socialità, il linguaggio è il genio della nostra specie, ma nel contempo può anche essere un limite. Ciò che è fuori dal linguaggio è come se fosse invisibile, è come se non esistesse. Secondo Karl Popper “noi uomini siamo ‘intellettualmente’ i prigionieri del nostro linguaggio”, mentre per Heidegger “non è l’uomo che parla nel linguaggio, ma è il linguaggio che parla nell’uomo, il linguaggio ‘dispone’ l’uomo, noi non parliamo ma ‘siamo parlati’ dal linguaggio”.

– Dunque il software, come linguaggio e strumento, determina chi lo usa e anche ciò che può essere realizzato grazie al suo utilizzo. Il software impone una maniera di fare e di operare (e quindi per questo avere delle alternative è fondamentale), e influenza ciò che può essere realizzato. Il fatto che non si possa avere accesso alla struttura del software, al codice, come avviene nel software closed source, per conoscerlo, ed eventualmente modificarlo, rende questo “linguaggio” ancora più rigido.

– In qualche modo noi sottostiamo dunque alla logica del software e alla sua impenetrabilità, potremmo dire al suo “imperialismo”. E sono convinto che tra le motivazioni che hanno spinto nazioni come per esempio la Cina o il Brasile ad appoggiare Linux anziché sistemi operativi proprietari e chiusi non ci siano solo motivazioni di natura economica, ma anche argomenti di questo tipo, ideologici e di controllo.

– Oggi sappiamo tutti quanto Internet e il sistema hardware e software che la sostiene siano importanti, fondamentali. Quando ho cominciato a usare il computer, circa quindici anni fa, Internet era agli albori, tutto quel che ognuno di noi produceva restava confinato nel proprio computer, le possibilità di scambio, di condivisione, erano scarse e si utilizzavano strumenti lenti, poco efficaci e poco affidabili (come per esempio i floppy disk), e le possibilità di connessione erano lente e costose. Oggi la situazione è totalmente diversa e questo processo è avvenuto a poco a poco, quasi senza che ce ne accorgessimo. Ce ne accorgiamo improvvisamente solo quando la connessione alla Rete viene a mancare. Qualche giorno fa sono rimasto senza connessione per un paio di giorni, e mi sono reso conto di quanto sia parte integrante del mio lavoro, della mia vita quotidiana, del software che uso, così come “essere connessi” è oggi indispensabile per un numero molto elevato di persone. Semplicemente non è più possibile farne a meno.

– Reti telematiche e sistemi hardware-software sono alla base della “gestione delle informazioni”. Ma dire “gestione delle informazioni” è generico e limitativo, sarebbe più corretto considerare l’intero ciclo di vita delle informazioni: ideazione, creazione, modifica, gestione, distribuzione, comunicazione, archiviazione e reperimento, dato che sono attività strettamente legate grazie al digitale e fortemente interconnesse grazie alle reti. Nella “società globale dell’informazione” è dunque più appropriato parlare di sistemi e infrastrutture della comunicazione e, più in generale, di infrastrutture della conoscenza.

– Per “infrastrutture della conoscenza” intendo quell’insieme di sistemi e applicazioni in ambito informatico per la creazione, lo scambio, la condivisione, la gestione, l’archiviazione, il reperimento e la protezione delle informazioni, del sapere. Nel Villaggio Globale tutti i nodi si scambiano e condividono conoscenze per mezzo di queste infrastrutture, che non sono solo infrastrutture di dati ma sono infrastrutture di saperi. Per l’importanza che rivestono e per la loro delicata posizione di mediatori attivi di conoscenza, il cui funzionamento influenza i risultati, il loro ruolo e il loro statuto dovrebbero essere attentamente considerati.

– Io credo che queste infrastrutture della conoscenza debbano essere basate su standard aperti.

a) Per garantire sicurezza e possibilità di verifica del loro funzionamento, aderenza agli scopi per cui sono impiegate, flessibilità. Proprio perché sono aperte, queste infrastrutture possono essere sottoposte a verifiche in tutte le loro parti anche a livello profondo, dunque possono essere più controllabili e garantire una maggiore democraticità.

b) Credo che queste infrastrutture aperte siano più affidabili perché consentono un iter più efficiente di correzione degli errori, che siano più sicure perché sono controllabili e modificabili.

c) Credo che posseggano una maggiore interoperabilità perché sono al di fuori delle logiche del monopolio e si basano su standard aperti e non proprietari.

d) Credo che garantiscano maggiori possibilità di accesso al sapere e dunque maggiore partecipazione perché generalmente sono più economiche di quelle chiuse.

– Nella storia dell’informatica a una prima fase aperta è seguita una fase di chiusura, che dura tuttora e che ha portato all’affermazione economica dell’industria del software. Ma negli ultimi anni c’è stata una buona diffusione del free software e dell’Open Source, della “filosofia” che li sostiene, non solo in situazioni geopolitiche economicamente svantaggiate, favorite dalla gratuità o dal basso costo di queste soluzioni, ma anche nei templi del grande business, nella scuola, nella pubblica amministrazione, basti pensare alle applicazioni di gestione dei server, al software scientifico, a Linux, al mondo dell’Open Source.