Ho partecipato alla presentazione del libro di Pierre Restany, Yves Klein. Il fuoco nel cuore del vuoto, Milano, Giampaolo Prearo Editore, 2008 (traduzione di Cristina Trivellin). Di seguito l’intervento.

 

Restany al Palais de Tokyo di Parigi, di cui era presidente. Immagine tratta da CreativTV.net

 

Milano, Sala Electa Koenig, 21/10/08

Sono molto contento di essere qui, con D’Ars, a presentare il libro di Pierre Restany. È inevitabile, nel contesto di questa presentazione, attingere a dei ricordi personali, dato che Restany per me è stato un riferimento importante, dal punto di vista professionale – nel contesto della collaborazione con D’Ars, che dura tuttora, e di quella con Domus – e dal punto di vista umano. E come riferimento non potrà che brillare in futuro. Pensando a Restany una cosa curiosa è che, nonostante ci conoscessimo dall’89, quando sono entrato a far parte di D’Ars (dunque l’anno prossimo saranno vent’anni), e nonostante tutte le occasioni di incontro e frequentazione, ci siamo sempre dati reciprocamente e rigorosamente del “lei” e ci siamo sempre chiamati per cognome. Anche se io, da provinciale e docente al cospetto di uno dei critici d’arte più importanti del mondo, aggiungevo spesso l’appellativo, polveroso, di “professore”. Questa distanza, tuttavia, era solo apparente, in realtà ci rendeva più vicini, era la distanza della sintonia, un po’ come se il regime del “lei” e del cognome fosse uno spazio che favoriva un confronto più libero, più aperto e rigoroso, che non aveva bisogno di essere annacquato con comportamenti di maniera.

Devo confessare che all’inizio mi meravigliava molto la disponibilità che Restany dimostrava nei confronti degli argomenti di cui mi occupavo allora (e di cui mi occupo ancora), che potevano sembrare lontani dall’arte contemporanea, e, alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90, persino astrusi. Erano argomenti che avevano a che fare con le tecnologie, i media, con l’impatto sociale e culturale della dimensione tecnoscientifica, mentre Restany non sapeva usare il computer e non aveva il telefonino. Questa sintonia, l’interesse per questi argomenti, me li dimostrava all’interno di D’Ars, e più tardi di Domus, nella cui redazione volle che entrassi nel 1995. Perché era convinto che una parte fondamentale del futuro risiedesse proprio lì.

Ciò che mi colpiva di Restany era la sua visione libera, senza preconcetti, del presente e soprattutto del futuro. Un futuro che, con una sensibilità straordinaria e con una capacità quasi visionaria, era capace di anticipare, come per esempio in occasione della caduta del Muro di Berlino. Del resto per Restany l’arte era pura libertà e l’artista era “uno spirito libero”, con tutto il diritto, la responsabilità e il dolore di sperimentare, spesso “senza rete”, di avvicinarsi alla “verità delle cose”, al loro centro, al loro “spirito”: un termine, quest’ultimo, che ho sempre considerato con sospetto ma che nel caso di Restany era vicino al significato di “essenza”. Per Restany l’artista, di cui Yves Klein incarnava la quintessenza di queste qualità, doveva giocare una partita a tutto campo alla ricerca di una sensibilità globale, nuova, una partita che andasse al di là del presente, delle contingenze e delle necessità, che doveva arrivare al cuore delle trasformazioni e rivelarle. Un artista in grado di di armonizzarsi con – sono parole sue – la “mutazione della sensibilità planetaria”.

Restany aveva compreso che era necessaria una nuova grammatica, una nuova gerarchia di idee e di valori nella società postindustriale, tecnologica, “biogenetica”, che era necessario trovare una nuova dimensione invariante e che le vecchie gerarchie perdevano, giorno dopo giorno, di valore e di significato. Era consapevole, ben prima dei discorsi sulla globalizzazione, dell’avvento di una “cultura globale” in cui tutto poteva relazionarsi con tutto, in cui la dimensione immateriale, simulativa, illusionistica e pervasiva della comunicazione costituiva uno dei tratti dominanti. Una “cultura globale” nei confronti della quale non era chiuso, come la maggioranza dei sui colleghi, ma totalmente, direi quasi entusiaticamente – ma nello stesso tempo criticamente e lucidamente – aperto: ne accettava le sfide e la portata. Aveva compreso che la dimensione tecnologica e tecnoscientifica avrebbe trasformato completamente e irreversibilmente la nostra realtà, finendo col diventare una dimensione normale e quotidiana, una “nuova natura”, in un processo che un suo illustre conterraneo, Roland Barthes, avrebbe chiamato in seguito di “naturalizzazione del culturale”.

In questi giorni sono impegnato nel seguire i candidati di un dottorato di ricerca internazionale sull’arte, un dottorato con una forte e profonda vocazione tecnoscientifica. Potete dunque immaginare quanto questa dimensione di “nuova natura” sia ricorrente, attuale, nel lavoro di ricerca di questi candidati. Yves Klein, credente e mutante, spirito libero e inquieto, tecnologo dello spirito, incarnava perfettamente questa tensione verso una sensibilità gobale, e vorrei chiudere questo intervento con una frase tratta dal libro di Restany, che mostra, a mio avviso, se ce ne fosse bisogno, la sua attualità:

“Quando arriveremo a non distinguere più lo specchio dall’oggetto, quando avremo integrato la materia allo spirito, quando avremo compreso che tutto è legato, indissociabile, avremo operato la nostra Rivoluzione Blu, saremo ritornati allo stato di natura nell’Eden Tecnico, il centro immutabile. Potremo allora raggiungere Yves Klein nell’eterno presente del corpo glorioso, il corpus glorificationis, e immergerci nel Fuoco, per prendervi possesso del nostro Sé. Così, saremo noi stessi il fuoco”. [Pierre Restany, Yves Klein. Il fuoco nel cuore del vuoto, Milano, Giampaolo Prearo Editore, 2008, pp. 94-95. Traduzione di Cristina Trivellin]

[Qui c’è un breve ricordo di Pierre Restany, in occasione delle sua morte avvenuta nel 2003]