
La settimana scorsa, grazie all’interessamento di Noema e del sottoscritto, della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, della NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma “La Sapienza”, quello che può essere considerato come il massimo studioso dell’arte biotech, Jens Hauser, è venuto in Italia. E’ venuto, oltre che per presentare suo libro in lingua italiana Art Biotech – di cui, insieme a Franco Torriani, ho curato l’edizione nella nostra lingua – pubblicato nella collana editoriale mediaversi dall’editore Clueb, a fare il punto sulle ricerche più recenti in questo ambito.
Hauser prroveniva dalla grande mostra che ha organizzato a Liverpool (“sk-interfaces“, in occasione di Liverpool capitale culturale europea). Accompagnandolo in due dei tre incontri italici, a Milano il 28/4 (“L’arte biotecnologica dell’innovazione”) e a Venezia il 29/4 (“L’Art Biotech”) mi sono reso conto di quanto questo argomento, spesso difficile e controverso, in realtà riscuota grande interesse nel pubblico, forse anche perché il nostro paese, per quanto riguarda l’arte contemporanea che usa gli strumenti tecnologici, è ancora pervaso dal paradigma digitale.
Negli ultimi anni la centralità del paradigma digitale sembra vacillare. Dal punto di vista tecnico è e sarà ancora molto importante, ma sta venendo meno la sua utilità sia a livello tecnoscientifico, per applicazioni sofisticate, sia concettuale, progettuale, teorico, per rendere conto di queste applicazioni e per prevedere il futuro tecnologico. Il digitale è l’esito più recente di un sogno che parte di lontano, il “sogno del numero”, che vorrebbe descrivere il mondo con i numeri. Tuttavia, questo sogno pare destinato a restare tale: per esempio Gödel ha mostrato che “non tutto può essere calcolato, formalizzato e meccanizzato all’interno del sistema formale del computer.” Non tutto l’esistente può dunque essere numerizzato, computato, calcolato, trasdotto in numeri. La complessità del mondo reale – la sua rappresentazione, il suo funzionamento – sembrano porsi al di là delle possibilità della computazione, della numerizzazione.
L’arte biotecnologica – completamente compresa all’inteno della dimensione dell’organico, dei composti del carbonio – presenta diversi elementi di lettura, ma probabilmente il più interessante ha una portata più ampia rispetto all’universo dell’arte. E’ il fatto di procedere verso una dimensione che cerca di superare l’antropocentrismo, una dimensione non più basata sulla simulazione e sull’immaterialità – tipiche del digitale – ma sulla presenza e sulla rimaterializzazione. Una dimensione – culturale, sociale, artistica… – che al centro pone il vivente, reificandolo e nel contempo espandendone le caratteristiche, le possibilità, anche ibridandosi con tecnologie al di fuori dell’organico.
Nel saggio di apertura del catalogo della mostra “sk-interfaces” Hauser pone una questione interessante: “L’arte riflette e anticipa, semplicemente, le conseguenze degli sviluppi biomedici? O gioca un ruolo più attivo, fornendo il contesto estetico che apre la strada alla reale trasformazione in vivente di queste vite liminali? L’arte gioca semplicemente un ruolo di agenda setting tecnoculturale? O questa funzione di agenda setting va oltre, ha il compito di introdurci a un nuovo mondo delle entità viventi e autonome?
Forse, come sempre, l’arte può vedere lontano…